In campagna i camini sono, sempre, il cuore della casa.
Eh si, in campagna, attorno ad una tavola, ci si ritrova con tante di quelle pietanze che viene da pensare che, sicuramente, la metà degli invitati non si sono presentati!
Avventuriamoci allora fra i ricordi attorno al fuoco.
Scrivendo per questo Blog mi tornano in mente le giornate vissute da bambino, quando capii che senza un fuoco in casa non ci sarei più saputo stare.
Dei ricordi qua e là
Il tiraggio di un camino è determinato da molteplici fattori. La dimensione della canna fumaria, la sua lunghezza, le proporzioni della bocca, gli spifferi d’aria che entrano dalle imposte non perfette, la differenza di pressione fra il piano del camino e l’uscita del comignolo e chissà quant’altro.
Una specie di magia, un equilibrio sottile che i mastri prestigiatori fumai sanno come realizzare e che a volte, non sanno ma, ci riescono ugualmente.
I miei avi: Silvestro, Giovanni, Amedeo, Berardo, Sabatino, Paolo e Antonio, sostenuti e coadiuvati dalle sorelle: Maria Paola, Maria Grazia e Maria Antonia, costruirono la casa pietra per pietra, facendo dapprima saltare con la dinamite metà della collina a fianco alla strada d’ingresso della piccola frazione. Poi presero quelle pietre, ad una ad una, ne formarono alcune scalpellandole ad angolo retto per definire gli angoli del fabbricato e via via andarono su, accanto alla mezza collina rimasta.
Pietre, travi di castagno, tavole tagliate con quelle grosse seghe a mezzaluna che, a vederle oggi quelle tavole sembrano tagliate col laser e invece, erano dei fratelli che affrontavano un tronco secolare a forza di braccia.
E lì, dentro quella casa, si son fatti pranzi assieme a tutta la famiglia, sentiti protetti e con troppe cose da mangiare.
Il camino
Il camino della cucina di zio Paolo ha una struttura particolare, è piccolo ma, il piano del fuoco è spostato molto in avanti, sembra quasi che la fiamma sia troppo distante dalla canna fumaria, come un focolare slittato verso la stanza ma lontano dalla bocca del fuoco.
Da piccolo, per me, che il fumo andasse su deciso era una cosa scontata, una magia naturale, una cosa su cui non farsi troppe domande.
Un giorno di qualche anno fa, quando ormai non ero più bambino, decisi di ripulire le pietre grigie che incorniciano la bocca del camino. Tre. Due pilastrini con semplici lavorazioni a scalpello e una, più grande, che funge da architrave, con qualche semplice modanatura.
Presi un trapano ed una spazzola di ferro a bicchiere, iniziai a spazzolare la fuliggine di decine di anni passati a scaldare e cucinare.
Polvere, polvere pesante che si volatilizzava scoprendo il colore delle pietre che i nonni e gli zii avevano visto da giovani e, quella polvere, da sola, senza un fuoco acceso, saliva su, verso la stessa strada che prendeva il fumo quando il camino era acceso.
Il tiraggio
Tirava comunque quel camino! A freddo! Il flusso d’aria era sempre e comunque verso l’uscita! Ragazzi, quel camino era riuscito bene. Non lo so se è stata fortuna, inconsapevolezza o straordinaria competenza ma, lo confesso, mi piace pensare che i miei avi sapevano bene cosa stessero facendo.
Così come hanno posizionato in tre punti diversi e lungo i tre piani, le tre cucine economiche che ancora oggi scaldano la casa.
Tutte e tre sono corredate di quel lucido serbatoio di metallo cromato, quella specie di pentolone rettangolare che sembra un grosso sterilizzatore di siringhe di un tempo. Messo lì di fianco e che, come un iceberg, rivelava solo una parte di se. Sembrava piccolo e invece, sfilandolo dal suo alloggiamento, si scopriva un profondo contenitore d’acqua.
La scoperta dell’acqua calda!
E che scoperta!
Nonn, la sera, dopo mangiato, si adoperava per riempire le borse dell’acqua calda. Con quel mestolo oblungo fatto apposta per immergersi nella parte nascosta dell’iceberg, tirava su acqua bollente da trasferire con l’imbuto fin dentro quelle sacche di gomma pesanti ed arancioni, e poi avvitava il tappo di metallo, la cui forma a me ricordava un cavatappi, come quelli per aprire le bottiglie di birra.
Queste borse dell’acqua calda venivano poi diligentemente distribuite nei letti, non tutti, solo in quelli di noi cittadini in villeggiatura. Alla gente del posto non servivano, abituati com’erano ai climi ben più rigidi degli inverni.
Noi s’era quasi d’estate, il clima negli anni sessanta era più rigido di ora e copertine e borse dell’acqua calda per noi non montanari, beh, erano ben gradite.
A ripensarci oggi, mi accorgo che negli anni sessanta il vento della modernità aveva già investito anche angoli reconditi, come quella piccola frazione fra i monti delle mie villeggiature.
Si usavano già le borse dell’acqua calda di caucciù, sì quelle arancioni comprate allo spaccio del paese vicino.
I metodi antichi
Nascosti da qualche parte c’erano il braciere di rame ed il suo compagno di legno, a foggia di barca del lago di Como dove Lucia dà l’addio ai monti, pensato per riscaldare i gelidi letti invernali di un tempo e toglierne la sgradevole umidità.
Li avrete visti di sicuro, magari solo in fotografia.
Lassù in montagna erano riposti in una stanza poco utilizzata, poggiati su un armadio che li faceva sembrare ancora più imponenti. La struttura in legno da queste parti si chiamava “il prete” mentre il braciere prendeva il nome de “la monaca”, sicuramente in ogni regione aveva nomi diversi.
Serviva a sollevare le lenzuola e le coperte per tenerle ben distanti da quella specie di padella chiusa da un coperchio bombato e pieno di fori che conteneva le braci prese dal camino. Si posizionava una mezz’oretta prima di coricarsi e la si toglieva quando già si indossavano le bianche e pesanti camicie da notte di tessuto di canapa, un po’ più rustiche dei nostri morbidi pigiami di Pile.
A noi andavano bene le borse dell’acqua calda ma, io immaginavo che nei letti degli zii, durante i mesi invernali in cui cadeva più di un metro di neve, quegli antichi ed affascinanti strumenti assolvevano egregiamente il loro compito.
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Conoscere bene il passato ci fa vivere molto meglio il presente e progettare meglio il futuro.