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L’inverno dentro la primavera: un racconto semplice.

di Fabio De Angelis
Dalla finestra della cucina di Zio Paolo.
Tempo di lettura: 4 minuti

L’inverno dentro la primavera

Siamo alla fine di Maggio, l’aria è più dolce e i fuochi son spenti. I nostri camini, le stufe, i forni, le cucine economiche, iniziano il loro meritato riposo. Un vaso coi fiori, un manto di stoffa ricamato, gli alari ripuliti dalla fuliggine. Questi sono gli ornamenti che faranno loro compagnia nei mesi più caldi.

Stufe e cucine che paiono inadatti in questi mesi non freddi, come presenze silenziose che sembrano star lì come un mobile apparentemente inutile. A guardarli; chiusi, spenti, vuoti della loro abituale legna ardente. Illuminati dal rettangolo di sole che entra dalla finestra esposta ad Est, non fanno che suscitare ricordi. Ricordi dell’inverno scorso o di

Tanti inverni fa

Avrò avuto undici o dodici anni, a casa dei nonni per Natale. Era l’epoca in cui ci si riuniva per le feste, tutti.

Erano arrivati anche i parenti da Bologna, mi piaceva sempre vederli, portavano modi nuovi di parlare col loro accento scanzonato e profondo.

Quella volta si era deciso di incontrarci lì, in montagna invece che a Roma. I posti per dormire c’erano, e se non c’erano qualcosa si arrangiava sempre ed eravamo contenti.

Cuginetti di frequente frequentazione con cui si giocava nell’aia in modo diverso da come si giocava a Roma. Altri cugini quasi sconosciuti di cui si diventava subito complici per costruire capanne nell’orto di nonno, col benestare silenzioso di nonno e sotto l’occhio vigile e severo di nonna.

Nonno e suo fratello avevano acceso, già dal giorno prima, il grande forno sul retro della casa. Noi piccolini gli davamo una mano a portare la legna, piccoli tondi di quercia che per noi erano tronchi secolari tagliati da un gigante.

Le cuoche

Verso le dieci arrivano nei pressi del forno le nonne e le zie, pure quella di Bologna, apprezzata cuoca, con le teglie piene di patate e cappone. Le trote del vicino laghetto sportivo sommerse da fette di limone e tre torte, da mettere in ultimo, quando la volta del forno sarebbe stata meno calda.

Il pane era già stato sfornato, impastato il giorno prima e messo in forno quando noi piccoli eravamo ancora fra le braccia di Morfeo e la parte di famiglia contadina aveva già vissuto più della metà della loro giornata.

Si mangiava tanto allora, i grandi avevano lo stomaco liberato da pochi anni dalla guerra. Una tavola esuberante rappresentava la rivincita alla povertà vissuta da adolescenti.
Noi piccoli non sentivamo differenza fra il freddo secco e pungente dell’aperto ed il tepore racchiuso fra le mura di casa. Il nostro andirivieni fra fuori e dentro era costellato da: “copriti!”, “levati il maglione!”, “ma dove vai che sudi!?”, “mettiti almeno il cappello!”. E noi si ubbidiva, taciti e felici.

Il camino scoppiettante e la sommessa cucina economica, usata stavolta solo per scaldare gli ambienti, ci hanno accompagnati nelle libagioni. Fuori -4, dentro ben caldi, abbracciati da mura di quasi un metro. Non lo sapevamo, noi bambini, del grande lavoro fatto dai nostri avi per proteggere loro e noi, e consentire il piacere di sedersi a tavola racchiusi dentro tonnellate di pietre ben disposte lungo i muri perimetrali.

Il pranzo

Durante il pranzo, dove sicuramente abbiamo fatto ammattire i nostri adulti con i nostri: “non mi piace.”, “voglio il dolce.”, “giochiamo a Tombola?”, “possiamo uscire?”. Poi, dopo il pranzo tutti eravamo preda di quella “cecagna” come si dice a Roma; di quel senso di sonnolenza improvvisa, data per noi dalle scalmanate corse nella mattinata illuminata da un freddo sole invernale; data per i grandi da quella bottiglia triangolare di Vecchia Romagna Etichetta Nera portata dai parenti di Bologna e ormai quasi finita.

L'ingresso della casa dei nonni.

L’ingresso della casa dei nonni.

Io conquistai la poltrona con i cuscini imbottiti ricoperti di stoffa damascata e dai braccioli di duro legno che, sembravano ostili ma, alla fine risultavano comodi per le braccia. Seduto lì, mezzo addormentato, verso le tre del pomeriggio davanti alla cucina economica ben accesa, cominciai a sognare.

Il sogno

Ero alto ma ancora piccolo nei pensieri, grande come mio padre fra i suoi zii e forte come non lo ero mai stato, stupito dal mondo attorno a me come lo ero sempre (e lo sono ancora).
Avevo in mano un’accetta, in mezzo al bosco.

Tanta gente si affaccendava intorno in tante attività; chi trascinava grossi rami, chi puliva dalle ramaglie i tronchi più piccoli con grosse roncole fra le mani, chi caricava la legna pulita e tagliata su quella grande slitta trainata da buoi maremmani, adatta a scorrere ondeggiante sulle pietre dei sentieri tracciati chissà quando.

Dovevo io abbattere la quercia più grande, quella destinata a scaldare la famiglia l’anno successivo. Intorno, la neve regalava l’odore di freddo ma, io avevo il cappello e, protetto da quel copricapo di lana intrecciato ai ferri da zia Mariuccia, colpivo l’albero con la lama lucida.

Nel sogno, dopo pochi colpi, impossibili nella realtà, troncai di netto. Con una precisione che mai sarei riuscito a ripetere da sveglio, il monumentale albero che, una volta sdraiato sulle felci del sottobosco era accudito dai tanti, riconoscenti, lavoratori.

Dopo aver diviso il tronco, i rami, le ramaglie e dopo averle caricate sulla “Traja” -così si chiamava la slitta- tornammo verso casa. Con quel carico di calore per le nostre stufe e i nostri camini.

Ed io ero felice, nel sogno, di aver contribuito, anzi, ero l’eroe che aveva portato il calore in casa. Abbarbicato alla meno peggio sulla slitta che scorreva lenta e quasi silenziosa, trascinata da due immensi animali di cui, dal mio punto di vista, vedevo solo le grandi corna oscillanti.

Il risveglio

Il rumore dello sportello della Rex, aperto per aggiungere i piccoli ciocchi necessari mi svegliò. Aprii gli occhi e, davanti a me zia Pasquarella, china sulla cucina economica poggiava la legna. Presa dal vecchio tino per il vino, trasformato in portalegna, sopra le braci non ancora spente dentro la minuscola camera di fuoco. Mi guardò e mi disse quasi sottovoce: “grazie”.
Ma, che ne sapeva, zia Pasquarella, del mio sogno?!

Capii in un attimo che forse quel sogno l’aveva fatto anche lei, da piccina, tanti anni fa e quel ricordo lo vedeva riflesso nei miei occhi di bambino appena sveglio.

Quel Natale passò, come tutti i Natali. Tanti di loro non ci sono più ma, sono tutti qui con me, ogni volta che aggiungo ciocchi di legna sulle braci non ancora spente.


Ti è capitato anche a te di sognare questi sogni? Anche se no, anche se ti è solo piaciuto questo racconto, condividilo e parlane.

A presto

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2 commenti

Giuliano 17 Maggio 2023 - 6:44

Bello ! mi piacerebbe far capire queste emozioni ai miei nipoti ma non riesco a capire come suscitare l’attenzione giusta all’ascolto di tali argomenti semplici , reali ma soprattutto positivi ! utili sicuramente per saper godere di una vita semplice e giusta , se qualcuno mi puo’ suggerire come fare lo ringrazio di cuore!

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Fabio De Angelis 19 Maggio 2023 - 21:56

Buonasera Giuliano,
Immagino non sia semplice comunicare alla giovani generazioni i valori e i dettagli della vita che abbiamo vissuto da piccoli. Però è così, i nostri ricordi appartengono alla nostra infanzia, così come i loro ricordi, quando saranno grandi, apparterranno alla loro infanzia.
L’importante è non forzare, non imporre, i ragazzi sfuggono alle imposizioni. Una strada possibile è probabilmente l’esempio, vivere con loro momenti veri. Accendere il fuoco insieme; fare le fettuccine coinvolgendoli; cucinare un piatto di famiglia con la loro partecipazione, poi, mentre lo si fa, raccontare come tutto questo lo si viveva da piccoli: “nonna mi diceva che era meglio fare così.”; “con papà, una volta, ci si è bruciata tutta la carne.”; “nonno stava sempre col sigaro in bocca quando metteva il pane nel forno a legna.”.
Insomma, una specie di favola fatta di realtà vissute.
No so che età abbiano i nipoti di cui parli, ma in ogni caso, il fare di fronte a loro le azioni e le cose e vivere le emozioni che vorresti trasmettere saranno il migliore insegnamento. Forse non condiviso subito, non assimilato immediatamente, però fare delle cose assieme sarà il miglior insegnamento che ricorderanno negli anni (loro) a venire.
La terra accoglie i semi che piantiamo, saranno poi i semi a crescere in quella terra.
Probabilmente non è solo questo il metodo. Spero che altri lettori ci diano il loro contributo con altri esempi e punti di vista.
Hai proposto un bellissimo interrogativo, che apre ad una possibile discussione costruttiva su come, oggi, trasferire un sapore antico nelle giovani menti delle nuove generazioni, che devono comunque vedere le cose da un loro punto di vista. Son diversi, come noi lo eravamo rispetto ai nostri padri, rispettiamoli e insegniamo quel che si può.
Buona vita e, buon lavoro!
Fabio

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