La vita in campagna è indissolubilmente legata al focolare domestico.
Questo legame nasce da piccolini, quando il calore familiare si mischia al calore del fuoco di un camino o di una stufa.
Stasera, seduto davanti al camino, ho pensato a quando è nata questa mia passione per il fuoco, per il focolare domestico, per quella miniatura di sole che tanto desideriamo avere lì, accanto a noi, che sia camino o stufa, attorno al quale stringere la nostra famiglia e i nostri affetti e anche, perché no, la passione per la cucina e i piaceri della gola.
Pensando a questo son riemersi dei ricordi della mia infanzia e ho deciso di raccontare
Una storia
E una storia di solito inizia con: “C’era una volta…” o ancora meglio con:
“C’era una volta…Un re! – Diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.”.
L’incipit più famoso della letteratura per ragazzi, l’inizio di Pinocchio; mi piace questo inizio, se non altro per il pezzo di legno!
Ma torniamo a noi, la nostra storia la facciamo cominciare collocandola nel suo tempo. Erano i primi anni sessanta, sarà stato il 1964 o ’65, insomma avevo 5 o 6 anni. C’ero già stato al paesino dei miei nonni ma le volte prima ero troppo piccolo per ricordarmele.
Come è andata
Quella volta andammo verso metà Giugno. Con la macchina si poteva arrivare fino a Santa Croce, un paesino lungo la Salaria. Parcheggiata lì la seicento di mio padre, c’era ad aspettarci zio Paolo con il mulo, che avrebbe sopportato sulla sua schiena il peso delle nostre valigie fino a casa.
Non c’erano, allora, strade carrabili per arrivare fino a su e ci incamminammo a piedi fino ai 1000 metri di altitudine dove, fra le poche altre case c’era anche la nostra, la più grande, costruita dai miei avi intorno al 1911.
Me la feci tutta a piedi, la mulattiera, per arrivare stanco senza rendermi conto di essere stanco, felice senza rendermi conto che difficilmente sarei stato più così felice.
Gli incontri
A casa, ad aspettarci c’erano zia Pasquarella, zia Mariuccia, zio Sabatino con zia Santina, nonno Silvestro con nonna Mina, lei si chiamava Giacomina ma le piaceva di più il diminutivo, e non aveva torto.
Dopo i saluti salimmo al primo piano nella cucina di zio Paolo dove un paiolo nero come la pece accettava silenzioso di essere abbracciato dalle fiamme del camino, era appeso ad una catena forse troppo grande per lui, una catena complicata, con ganci ed anelli di cui solo anni più tardi capii il funzionamento.
L’odore, anzi, il profumo che permeava le mura, le scale, gli angoli di quella casa mi riempiva i polmoni abituati all’aria di città, il profumo di legna di quercia che brucia, un profumo che non ho mai dimenticato e che ancora oggi, se respiro con gli occhi chiusi, si fa ricordo tangibile nelle mie narici.
A sinistra del camino c’era la poltrona di zio Paolo, una vecchia sdraio fatta a forma della schiena dello zio, lì vicino, i ciocchi di legna nodosi che raccontavano gli anni passati a crescere nel bosco. Sotto la grande dispensa di legno, appesa al muro con due nere staffe di ferro, le fascine di legna fine, quella per accendere il fuoco, che non ho mai capito a cosa servissero visto che il fuoco era sempre acceso.
Al centro della stanza, il tavolo, dove la sera avremmo mangiato la zuppa di farro che il paiolo custodiva nel suo ventre forte e pesante.
L’ispirazione
Forse fu allora che nella mia testa di bambino prese forma l’amore per quello stato d’animo, per quei profumi, per quella fiamma sommessa ma straordinariamente forte attorno alla quale vorticavano le attività di quelle donne e di quegli uomini che sentivo essere la mia famiglia.
O forse fu il giorno dopo, quando nonno Silvestro mi fece accendere, coi fiammiferi di legno, la sua cucina economica al piano di sopra.
Era mattina, non tanto presto. Nella nicchia sotto il ripiano di marmo c’erano ciocchi molto più piccoli di quelli visti il giorno prima accanto al camino, tagliati e spaccati con la consapevolezza di essere utilizzati nel braciere minuscolo della Rex.
Nonno prese un lungo ferro con un uncino ed una curiosa molla che era appeso alla cucina economica, con quello scoperchiò qualche cerchio di ghisa sul piano della cucina e mise due o tre ciocchetti nella camera di fuoco, poi, con le mani spezzò i fianchi di una cassetta di legno per la frutta, li mise sopra ai ciocchi ed infine appallottolò una pagina de Il Messaggero.
Il fiammifero
Fatto questo mi diede il fiammifero preso dalla scatolina di cartone e mi spiegò come sfregarlo sulla strisciolina di carta vetrata biancastra, già segnata da incerte righe rosso mattone. Dopo qualche tentativo riuscii a far scoppiettare la testa di zolfo. Ci accesi la carta e, quando nonno era certo che aveva ben preso fuoco, richiuse gli anelli di ghisa su quella promessa di calore.
Dopo neanche mezz’ora il piano rugoso, color ferro scuro, emanava un gradevole tepore. Era Giugno ma a quella altitudine e tante estati fa, era piacevole il calore nelle mattine di cielo color lapislazzulo. Io intanto scoprivo quanto era divertente gettarci sopra piccole gocce d’acqua che friggevano e diventavano palline che saltellavano per qualche istante in tutte le direzioni, per poi sparire in un piccolissimo sbuffo di vapore, che forse io solo vedevo.
Verso mezzogiorno nonno iniziò a cuocere sulla piastra di ghisa delle grosse lumache senza guscio che aveva raccolto i giorni prima e che aveva fatto spurgare in un secchio con un coperchio ed un sasso poggiato sopra per non farle scappare. Tagliate a fette, le arrostiva sulla piastra di ghisa dicendo che quello era un boccone da Re. Era stato cuoco in un importante albergo di Via Veneto e mi sarei dovuto fidare ma, non mi convinse mai ad assaggiarle!
Mentre lui cucinava io pensavo solo al bagliore del fiammifero ed all’odore acre di zolfo che aveva sorpreso il mio naso all’improvviso, ed alla fiamma del giornale, ed alla legna che diventava fuoco e faceva diventar calda la stanza.
Oggi
Adesso che ho più di sessant’anni, accendo quella Rex nello stesso modo che mi insegnò nonno, ripenso a quelle lumache arrostite e per un istante rimpiango di non averle assaggiate, ma poi mi passa subito, e resto convinto di aver fatto bene!
Non mi passa però quella gioia, quel sentire di nuovo quello stesso calore, e vedo mio nonno seduto sulla sedia di legno impagliata e sento mio padre e mia madre sfaccendare intorno a letti tanto, tanto alti, e lenzuola pulite.
Questa è la storia, questo è il tempo in cui mi innamorai del fuoco e di quello che rappresenta.
E voi, miei cari lettori, ve lo ricordate quando è nato il vostro gioioso ed amaro amore per il fuoco di legna?
Se vi va, raccontatelo nei commenti e non dimenticatevi di condividere questo mio ricordo.
La cucina economica nella foto di copertina è proprio quella di nonno Silvestro, dove cucinava le lumache!